Imparare a osservare per lasciare accadere

In questo articolo ho pensato di affrontare ancora una volta l’argomento legato al lasciare accadere durante la pratica della meditazione (ma anche del qi gong, dello yoga…).

Quando parliamo di “lasciare accadere”, spesso rischiamo un fraintendimento. Lasciare andare/accadere, infatti, non significa non fare nulla durante la pratica. Significa al contrario imparare a osservare e ad ascoltare. Concederci il tempo necessario affinché la nostra pratica sviluppi (in noi) le condizioni necessarie affinché avvenga quello che deve accadere (non necessariamente quello che desideriamo accada, ma quello che è necessario accada per tornare all’equilibrio). Solo quando queste condizioni sono rispettate avremo la certezza di poter fare anche tanto altro all’interno della nostra pratica personale.

Si tratta di una distinzione sottile che può essere compresa solo quando un certo “sentire” si manifesta all’interno della vostra pratica meditativa. E non ha importanza se parliamo di meditazione taoista o di altro tipo, è un discorso che vale per tutte le discipline.

Proviamo ad affrontare la questione con un esempio.

Supponiamo che oggi sentiamo il desiderio, se non addirittura la necessità, di meditare un pochino. Magari è uno spazio che dedichiamo abitualmente a noi stessi, o magari abbiamo passato dei giorni un po’ impegnativi (per svariate possibili ragioni che per ognuno di noi saranno diverse ma magari anche simili, dato che viviamo un piano esistenziale comune). Potrebbe essere che abbiamo corso per impegni di lavoro o familiari, che abbiamo dovuto affrontare varie situazioni che ci hanno richiesto un dispendio di energia legata alla concentrazione, alle emozioni.

Insomma, diciamo che siamo un po’ stanchi e sentiamo il bisogno di rilassarci, di “ricaricare le batterie” e ritagliarci dello spazio per noi stessi.

Quindi decidiamo di praticare la nostra meditazione, la nostra pratica Yoga preferita o una forma di Qi Gong che conosciamo bene e che in altre occasioni ci ha fatto stare bene.

Diciamo che scegliamo la meditazione, ci sediamo sulla nostra sedia, sul nostro cuscino, ci sdraiamo su un fianco sul nostro comodo letto (in questo caso meglio il fianco destro) e ci prepariamo. Se poi abbiamo un background taoista, potremmo già avere in mente di fare “qualcosa” di più specifico.

Ma andiamo con ordine. Iniziamo dunque la nostra pratica e ci accorgiamo subito che, in effetti, siamo un po’ “troppo agitati”, il respiro non è regolare, magari un po’ affannato e la mente salta da tutte le parti, come se non volesse saperne di lasciare per un po’ da parte i pensieri che l’hanno affollata fino a poco prima.

In una situazione di questo tipo – piuttosto comune e nella quale tutti noi ci siamo probabilmente trovati – ci si presentano due possibilità di azione (e ci accorgeremo che ci si presentano e ri-presentano in continuazione durante lo svolgimento della pratica):

  1. Ci limitiamo a osservare quello che accade (il nostro respiro, i pensieri che affollano la mente, le sensazioni fisiche piacevoli o spiacevoli che si manifestano).
  2. Ci attiviamo per svolgere “la nostra tecnica” (magari stimolati dal fatto di conoscerne alcune utili allo scopo). Per esempio, iniziamo a controllare il respiro imponendoci di inspirare ed espirare con calma e profondamente, nel tentativo, appunto, di guadagnare una respirazione più regolare, profonda e libera.

Diciamo quindi che, tipicamente, ci si presentano due opzioni. La possibilità di lasciare accadere, di osservare quello che accade dentro di noi, oppure di “pilotare” l’esperienza nel tentativo di raggiungere un obiettivo preciso. La terza possibilità, naturalmente, è che avvenga un insieme di questi due approcci (riconosciamo l’importanza di osservare, ma nel contempo agiamo per favorire questo processo). Ma in questo breve articolo cercheremo di distinguere bene i primi due approcci perché il terzo implica già una certa dimestichezza e capacità di osservazione, che non sempre il praticante alle prime armi ha già raggiunto.

Proseguendo con l’esempio, quindi, proviamo a vedere che tipo di esperienza potremmo riservarci con un approccio o con l’altro.

Osservare

Entrare in uno stato meditativo adeguato richiede del tempo. La mente analitica (l’emisfero sinistro) è quella che utilizziamo più di frequente. È quella che ci permette di analizzare, elaborare, svolgere un’attività, appunto, più analitica.

A differenza della mente più intuitiva ed emotiva (l’emisfero destro) che è attiva quando…beh, quando pensiamo meno o non pensiamo affatto. Quando ci lasciamo andare, quando canticchiamo sopra pensiero. Quando ci abbandoniamo alla spontaneità, senza ragionare troppo e quando svogliamo un’attività artistica.

Un attitudine meditativa che tenda a favorire l’attivazione dell’emisfero destro rispetto al sinistro (che invece vogliamo appunto aiutare a “placarsi”) risulterà essere quella migliore per qualunque tipo di meditazione noi si stia praticando. Perché?

Perché quando ci limitiamo a osservare il nostro respiro “agitato” senza tentare di modificarlo potrebbe succedere che, lasciando il flusso libero, ci si presenti alla mente l’epilogo della nostra discussione con nostra moglie o nostro marito del giorno prima. E ancora una volta non cercheremo di allontanare questa immagine e le emozioni associate perché ci “distraggono” dalla meditazione. Cominceremo invece a capire che fanno parte della meditazione. Quindi osserviamo il respiro, osserviamo il ricordo, ci “accorgiamo” delle emozioni che abbiamo provato e che stiamo magari rivivendo proprio nel momento presente. Ci limitiamo a osservare tutto ciò.

Quando la mente si sposterà di nuovo in una direzione diversa, continueremo semplicemente ad osservare. Prenderemo nota di quello che ci accade, ma lo faremo con un certo “distacco”. Non ci attaccheremo al piacere e non cercheremo di fuggire il dolore. Con un approccio molto buddhista, ci limiteremo a osservare e ad accettare quello che troveremo dentro di noi e fuori da noi.

Con il prosieguo di questa attività, ci accorgeremo di come questa meditazione sia davvero piena di accadimenti, piena di “distrazioni”, piena di sensazioni ed emozioni. Con il tempo e l’esperienza, affineremo la “nostra tecnica” per ascoltare meglio, per osservare meglio. E arriverà il giorno in cui potremo sperimentare qualcosa di più. Impareremo a guidare un pochino la nostra pratica per favorire quei processi curativi e di riequilibrio tipici della tradizione taoista.

Ma – e questo è il punto davvero nevralgico di tutta la questione – potremo iniziare a farlo solo con la collaborazione di una mente tranquilla e grazie a un’energia più equilibrata. Vediamo perché questo approccio sia preferibile e in cosa differisce da quello seguente.

Agire

Se invece decidessimo di agire per “rimediare” allo stato di disarmonia che abbiamo colto in noi, ci troveremmo a fare i conti con un desiderio e un’aspirazione assolutamente legittimi ma, spesso, con una “bagaglio” operativo e una potenziale “zavorra” che potrebbero metterci il bastone tra le ruote.

Proviamo di nuovo con un piccolo esempio.

Proviamo a immaginare la nostra mente come una lente di ingrandimento. Una lente che ci permette di osservare più da vicino e meglio (grazie all’ingrandimento).

Se posizioniamo dunque la mente sul respiro potremmo gradualmente accorgerci di ogni minimo accadimento e modificazione legati al nostro processo respiratorio e ai nostri polmoni.

Ma se come abbiamo detto la mente è come una lente di ingrandimento, cosa succede se questa lente è sporca? Diciamo piena di polvere, di macchie o peggio ancora graffiata?

Succederà che grazie alla meditazione e a causa di questa “sporcizia”amplificheremo una visione, un dettaglio, in modo distorto. Continuando l’esempio di prima, potremmo accorgerci che mentre osserviamo il nostro respiro, questo diventa ancora più disarmonico. O magari era perfetto fino a un secondo prima, ma adesso abbiamo fame d’aria. Magari ci accorgiamo che la mente ci ha riportati altrove e il tentativo che stiamo continuando a fare di riportare l’attenzione sul famigerato “qui ed ora”, altro non sta favorendo se non il modificare e rendere meno spontaneo e naturale il nostro stesso respiro. Quello che volevamo migliorare sta, di fatto, peggiorando.

Lo sporco sulla nostra “lente di ingrandimento” è spesso il risultato delle nostre aspettative, del filtro che applichiamo alla nostra esperienza giudicandola, arrabbiandoci perché ancora una volta non siamo riusciti a meditare come avremmo voluto. E i graffi, ancora più insidiosi dello sporco, rappresentano le convinzioni con le quali elaboriamo quello che ci sta capitando. Potremmo dire che comprendiamo quello che accade leggendolo attraverso i graffi profondi della nostra lente. Una lettura distorta, appunto.

Insomma, spesso accade che abbiamo già deciso a priori come sarà la nostra meditazione. Ci convinciamo che stiamo facendo qualcosa, che stiamo vivendo qualcosa, ma in realtà lo stiamo pilotando noi. Lo stiamo creando noi.

Vediamo attraverso questa lente sporca e applichiamo quello che vediamo alla nostra esperienza.

Quindi in che modo possiamo risolvere questa impasse? Scegliendo l’approccio dell’osservazione. L’errore che molti commettono è proprio quello di notare lo sporco sulla lente e decidere di “scansarlo” di pulirlo “allontanandolo”. Pretendendo di “sanarlo” prima che sia effettivamente possibile farlo.

Se la mente si distrae, cerco di allontanare i pensieri che causano la distrazione.

Invece potrei limitarmi a osservarli. Osservare cosa generano dentro di me. Che impatto hanno sulla mia energia.

Non cerchiamo di cambiare le cose, lasciamo che cambino da sole.

Accadrà, ve lo assicuro, che la vostra meditazione inizierà davvero a essere rigenerante e curativa. E quando succederà, comprenderete la sottile distinzione tra lasciare avvenire e fare avvenire.

Solo quando lo avrete capito potrete tentare di “fare avvenire” altro. Forti di una lente sempre più pulita che vi permetterà di cogliere l’essenza senza correre il rischio di dipingerla artificialmente.

Ricordiamoci che il nostro piano è governato dalla polarità. Ed è perfetto così.

Quando però vogliamo che la nostra coscienza si sposti altrove, dobbiamo darle il tempo di “rinunciare” temporaneamente a questa polarità per lasciare affiorare l’equilibrio originario. A questo punto sentiremo e vivremo la realtà del nostro piano fisico – o anche la realtà di altre dimensioni – con i nostri “sensi interni”. Che, da un certo punto di vista, la sanno molto più lunga dei cinque sensi esterni che ci servono per operare nel piano fisico!

Ognuno di noi è diverso, ognuno di noi ha le sue polarità da “ri-armonizzare” e le sue necessità da soddisfare in termini esistenziali ed energetici. C’è un approccio alla tecnica che è sempre vincente: osservare, lasciare andare e sorridere.

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